L’intervista a monsignor Cipolla, nuovo vescovo di Padova

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L’intervista a monsignor Cipolla, nuovo vescovo di Padova

Don Claudio, com’è stata la sua infanzia?

«Sono nato 60 anni fa a Goito. Anzi alla Bellacqua, un mulino nella frazione di Sacca. Mio padre era contadino, mia madre casalinga. La mia famiglia era molto povera. Quando avevo sette anni ci siamo trasferiti a Milano perché mio padre cercava lavoro».

E come è andata?

«Aveva trovato come operaio e mia madre domestica, ma dopo nemmeno un anno anche quello è finito e siamo tornati nel Mantovano, a Castiglione delle Stiviere».

Dunque lei ha vissuto personalmente da povero e da immigrato. Come sono stati i suoi studi?

«Beh. Le elementari le ho fatte un po’ qui e un po’ là. Vivevo molto sulla strada, come tanti bambini allora che non avevano mezzi».

Come è nata la sua vocazione?

«Diciamo in due fasi. La prima è nata perché fra le tante cose che ho detto da bambino c’era anche che volevo fare il prete. I miei, che lavoravano entrambi, hanno colto al volo l’opportunità di accudire una persona in meno in famiglia e farmi studiare. La seconda alla fine del liceo. Lì era ad un bivio, non riuscivo a decidermi. Ho chiesto aiuto alle persone che conoscevo. Alla fine ho trovato fiducia in me stesso ed ho iniziato gli studi di teologia».

C’è qualche persona della famiglia che l’ha particolarmente aiutata nella fede?

«I miei genitori erano persone religiose, un po’ più mio padre. Ma non particolarmente. Forse la spinta più importante me l’ha data mia nonna. Era nata in Brasile ed era una anticlericale fervente. Era andata in chiesa nella sua vita solo per sposarsi. Ma mi ha insegnato le preghiere e la carità verso i poveri. In chiesa ci è tornata quando sono diventato prete».

Oltre allo studio in seminario, ha fatto altre esperienze che l’hanno segnata in quel periodo?

«Sì. Sono entrato negli Scout e poi ho fatto un servizio ai 5 Continenti a Castiglione, zona di forte degrado e immigrazione. Entrambe le esperienze mi hanno aiutato a trovare la mia strada. Nel 1978 la morte di don Giuseppe Vincenzi, insegnante di musica al seminario, anche lui goitese, mi ha confermato nella mia scelta di fede».

Quali sono stati i primi passi da sacerdote?

«Nel 1979 ho fatto il diacono a Governolo. Un’esperienza per me difficile. Sono stato ordinato l’anno dopo e il vescovo di allora, monsignor Carlo Ferrari ha capito il mio travaglio e mi ha messo alla parrocchia di città di Ognissanti, vicario di monsignor Giosuè Rosa che ha influito molto sulla mia crescita. Lì si praticava la vera partecipazione dei fedeli alla vita parrocchiale. Per me è stata una scuola».

Poi è arrivata Medole.

«Sì. Ero appena stato nominato vicario là. Purtroppo un bambino è morto durante un campo scuola. Era malato, ma non si sapeva. Per me è stato uno choc fortissimo. Ogni sacerdote vive momenti di crisi e dubbi. Per me quello è stato il più critico».

Come ne è uscito?

«Incontrando il prossimo, la povertà, gli ultimi. Ero stato nominato direttore della Caritas diocesana, non svolgevo più l’attività in parrocchia. Ho iniziato a vivere nella casa di accoglienza via Rubens. Per due anni mangiavo e a volte dormivo con i barboni. Sono loro che mi hanno ridato la forza di svolgere il mio servizio sacerdotale. Guardi porto sempre con me la poesia di uno di loro, Lorenzo Cornella, morto di tumore: “Beati i barboni, non hanno illusioni e maschere. Sono lo specchio di tutti noi”. Qualcuno è venuto a trovarmi quando ha saputo che ero diventato vescovo».

Nel 1998 diventa parroco qui, a Sant’Antonio. Per lei cos’è la parrocchia?

«È una comunità di comunità. Le parrocchie non sono più dei centri un po’ chiusi in se stessi dove si ritrovano i cattolici. Devono essere il riferimento delle persone che per scelta consapevole sono credenti. Che si aprono all’esterno con aiuti concreti ed accoglienza di chi è povero. Che in sostanza vivono la preghiera e la fraternità. E per far questo anche la chiesa deve essere povera».

Cosa pensa sentendo che sindaci e Comuni, come recentemente San Benedetto Po, rifiutano i profughi?

«Che ci si deve confrontare con le istituzioni senza fare guerre, ma partendo dal fatto chiaro che chi segue Cristo segue il Vangelo. Che dice di partire dagli ultimi. Sono appena tornato da Barbiana. Se vuole le cito una frase di don Milani: “Se voi avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri”. Io sto con don Milani».

Stiamo su un tema d’attualità. Cosa ne pensa della vasca in Sant’Andrea?

«Il progetto non l’ho visto. Ma è una bella intuizione del nostro vescovo. Non si nasce più cristiani, ma ci si diventa. Quindi è giusto dare rilievo, anche cerimoniale, a chi sceglie il battesimo da adulti: serve come esempio per tutti noi. Non è un nuovo rito, è una idea pastorale».

Come ha saputo che sarebbe diventato vescovo?

«Ho ricevuto una telefonata dalla nunziatura apostolica il 2 luglio. Mi convocavano a Roma per il 9 senza dirmi il motivo e sotto obbligo di silenzio. Ero al Rifugio Pertini sulle Dolomiti. Quella notte non ho dormito. Pensavo ogni cosa possibile. Anche una nomina a vescovo, certo e con internet ho spulciato le diocesi libere. Pensavo a quelle più piccole. Poi sono stato assalito dai dubbi ed ho provato ad oppormi, ma a Roma il nunzio non mi ha lasciato alternative. “Circa la sua idoneità – mi hanno detto – il Papa se ne assume la responsabilità personale”. Come dire che non dipendeva da me scegliere e che forse è stato proprio Bergoglio ad indicarmi. Immagino per l’attenzione ai poveri, alla vita parrocchiale e diocesana».

Cosa pensa della diocesi mantovana?

«Una diocesi in trasformazione, in cammino. Sono coordinatore del Sinodo. In questi mesi abbiamo incontrato oltre 6mila persone. Sono molto fiducioso che la spinta verrà dalla base».

E che parrocchia lascia dopo 18 anni?

«Questo è il più grande dispiacere in questo momento. In 18 anni si creano rapporti molto forti con le persone. In curia il capitolo sulla mia parrocchia non l’ho letto per l’emozione. So che dovrò pian piano sciogliere i legami. Mi sembra di abbandonare dei figli. Anche se penso che più che di nuovi preti, ci sia bisogno di più cristiani».

È il pensiero della nonna anticlericale che riemerge?

«No. Io ho messo la mia vita a disposizione della Chiesa, non mi appartengo più. Ma la vita della Chiesa è quella delle sue comunità. Papa Francesco lo ha detto: ascoltare i poveri è il senso dell’essere cristiano. Anche sconvolgendo le prospettive dei potenti»

02 agosto 2015